Per una protesi ci vuole un tappo. Il progetto dei ragazzi del “Massimo” di Roma

Anche un tappo può dare una mano. O, meglio, crearla. Lo hanno imparato i ragazzi dell’istituto paritario “Massimiliano Massimo” che con l’aiuto di alcuni genitori-ingegneri, di due professori dell’università di Roma Tre e di alcuni docenti della scuola, hanno progettato e costruito un sistema che consente di trasformare tappi e contenitori di plastica in protesi esterne o pezzi di ricambio essenziali, grazie a estrusori e stampanti 3D. Il tutto con l’obiettivo di inviare i loro “kit” a due ospedali africani, il Lacor St. Mary Hospital in Uganda e il centro sanitario di Kenge in Congo. Per farlo, hanno ancora bisogno, però, di 22.900 euro e così lanceranno oggi (venerdì 4 marzo), con un evento nel loro istituto, un crowdfunding attraverso la piattaforma Eppela. Lo spunto per il progetto “Crowd4Africa” è arrivato da uno studio Onu, in cui si evidenziavano le difficoltà e gli altissimi costi per l’invio di aiuti umanitari in Africa e si raccomandava quindi di sperimentare la produzione in loco. Ma anche dalla consapevolezza che con le stampanti 3D i costi per costruire protesi e pezzi di ricambio si possono abbattere drasticamente. Così si è deciso di mettere a frutto in questo progetto umanitario le competenze che gli alunni avevano acquisito durante due corsi: “For 3D world”, che coinvolto i 15 ragazzi dai 15 ai 17 anni che hanno ora organizzato il crowdfunding, assistiti da 20 professionisti volontari provenienti dal mondo dell’industria, dell’università, della scuola, della sanità. E “Making 3D Printers” in cui 69 ragazzi dagli 8 ai 15 anni e 40 genitori hanno studiato la progettazione e la costruzione di una personale stampante 3D. Anche gli estrusori (che servono per trasformare la plastica dei tappi triturati in un filo rifinito, materia prima per la stampa) «sono stati costruiti da zero» racconta Dante Dessena, uno dei papà ingegneri che figurano fra i promotori dell’iniziativa. «L’obiettivo è quello di mettere a disposizione dei medici che operano in Africa l’intero kit, file 3D compresi, in modo che possano produrre in loco le protesi»